Forse non possiamo ancora chiamarlo il nuovo Rinascimento del cinema italiano, ma permetteteci quantomeno di stappare una bottiglia di champagne se, meno di due mesi dopo il sorprendente e audace Lo chiamavano Jeeg Robot, irrompe – è proprio il caso di dirlo – nelle nostre sale una seconda folgorante cometa a illuminare la pigra e blanda fattura predominante che da anni anestetizza gli schermi del Belpaese (opere di autori stabilmente affermati a parte).

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Si tratta di Veloce come il vento, secondo lungometraggio del giovane Matteo Rovere (alle spalle corti, documentari e coraggiose mosse produttive: tra gli altri titoli, Smetto quando voglio e vari episodi dei The Pills): un film percorso da una carica di elettricità nervosa, dall’energia rozza, innestato su un impianto muscolare di realismo rock, che racconta il riscatto di una fanciulla pilota e la redenzione del fratello ex campione, spostato e tossicomane. E che sono i due corpi che danno motore, andatura, pulsazione alla pellicola: il corpo flessuoso e pulito (ma con un’irregolarità ribelle, quello spruzzo di capelli radi e blu) che appartiene a Matilde De Angelis – evocatrice della Jennifer Lawrence di Un gelido inverno –, e il corpo sfatto, emaciato e sfrangiato da brutture e sbagli che si trascina dietro come un tronco spoglio e pesante Stefano Accorsi (alla sua prova più impegnativa e centrata, a suo modo davvero una redenzione dalle diffuse ridicolizzazioni a cui i social l’hanno sottoposto dall’affaire 1992 in poi). Due fisicità inconciliabili che hanno, però, il medesimo bisogno vitale – e non soltanto economico – di rituffarsi in pista, di abbandonare nel vento il letamaio oppressivo e sbilenco delle loro vite per rimettere a fuoco obbiettivi, sentimenti, opportunità vitali.

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Veloce come il vento osa, al pari dei suoi protagonisti, la proposta di un cinema che trova la forza nelle sue smagliature, nella sua ruvidezza, nelle sue imperfezioni, nel suo mettere le mani in pasta a una materia fortemente emotiva senza porre in secondo piano il genere, dotandolo di un respiro internazionale ma con una fisionomia fieramente nostrana – dall’accento dei personaggi ai paesaggi tipici (una delle sequenze più belle del film ha luogo in una Matera notturna mozzafiato).

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E nei suoi scatti vibranti di regia, nel suo incedere vigoroso e appassionato, Veloce come il vento dribbla ostacoli contro cui potrebbe facilmente schiantarsi, evitando le paludi del ricattatorio, rendendosi scevro da qualunque autocompiacimento. Da una tela che freme e sussulta e si straccia di sudore, polvere, olio, pioggia e terriccio Rovere fa irradiare un’emozione reale, una compartecipazione sincera al vissuto di due figure sgualcite che si smarcano dall’ombra e dal marchio del fallimento per estrarre brandelli di sole da un’affettività ritrovata, da un abbraccio liberatorio, dall’emersione identitaria l’uno nell’altra.



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